La storia

Per quanto manchi una specifica ricerca in proposito, sembra fuori di dubbio che sul territorio dell’attuale provincia di Firenze, e non soltanto sui terreni della Valdelsa , venisse praticata la coltivazione della pianta, che aveva del resto un impiego non soltanto in cucina, ma anche nella farmacopea e nella pittura. Ce ne forniscono la prova sia i contratti di mezzadria, le pratiche di mercatura, le tariffe fissate nel 1427 dagli Ufficiali del Catasto per la valutazione delle rendite agrarie dei cittadini fiorentini, sia qualche notizia isolata, che potrà essere arricchita sicuramente in futuro. Per esempio lo statuto della lega di San Donato in Poggio (attuali territori comunali di Tavarnelle Val di Pesa e Barberino Valdelsa), che comprendeva i pivieri di San Donato, di San Piero in Bossolo e di Sant’Appiano, comminava nel 1406 delle pene per chi danneggiasse con il bestiame “vigna, gruogo ovvero channeto” dall’inizio di aprile all’inizio di ottobre(3).       

Anche lo statuto di San Godenzo, una terra collocata a ridosso dell’Appennino, prevedeva nel 1475 che potessero essere danneggiati da persone o animali anche gli “zafferani”, oltre alle vigne, agli orti, ai grani, alle biade, ai castagneti e alle terre olivate(4).

      

Dalla grande ricerca che uno studioso di prim’ordine ha dedicato al territorio fiorentino nel Trecento veniamo a sapere che la coltivazione dello zafferano era praticata in Val d’Elsa a Gambassi, Castelnovo, San Piero in Mercato, Montalbino, Lucardo e Petrognano in Valdelsa, e nel piviere di San Gersolè, nell’attuale comune di Certaldo . Particolarmente per Petrognano, nell’attuale comune di Barberino, è rimasta testimonianza per gli anni compresi tra il 1300 e il 1348, di vendite di zafferano da parte di una quarantina di capi-famiglia (i nuclei familiari erano 90, fra i quali circa 70 contadini). Questo dato fa supporre che almeno nelle zone ricordate e più in generale nei colli fiorentini, la coltivazione della pianta rivestisse una certa importanza per la popolazione locale(5).

Qualche contratto di mezzadria, già per la seconda metà del Duecento, ci informa che i proprietari fiorentini favorivano la coltivazione dello zafferano fornendo ai loro mezzadri i bulbi (capita croci) da piantare, il cui prodotto, ben secco e trattato, avrebbe dovuto essere consegnato per metà al padrone. Le segnalazioni, certo largamente inferiori alla realtà per la perdita della documentazione, si riferiscono soprattutto alla pieve di Giogoli, ma anche alla zona di Balatro, nell’attuale comune di Bagno a Ripoli, e ai territori delle parrocchie di San Iacopo a Magliano nel comune di Tavarnelle Val di Pesa e Sant’Angelo a Semifonte in quel di Barberino Val d’Elsa. Talvolta doveva trattarsi di quantità notevoli (in due casi, relativi a Giogoli, si parla di due moggi di capita da interrare)(6).   

La più famosa fra le pratiche di mercatura fiorentine, quella di Francesco Balducci Pegolotti, riconducibile alla prima metà del Trecento, parlando delle equivalenze tra i pesi e le misure di Acri e i pesi e le misure di Firenze – il fatto implica ovviamente dei rapporti commerciali – ci dice che 10 libbre di “zafferano di Firenze” equivalevano in Acri a libbre 10 e 3 once, “e più o meno secondo che è tenuto”(7) . Per la piazza commerciale di Pisa si ricorda invece, più ampiamente, lo “zafferano toscano”(8) , e la definizione ritorna in uno specifico e lungo elenco di “spezierie” steso dal Pegolotti nella sua opera(9) , che altrove, da esperto uomo di commercio, valuta quello toscano come lo zafferano “migliore”, al pari di quello abruzzese, marchigiano e catalano(10).

Le tariffe fissate per il Catasto fiorentino del 1427 ci forniscono invece una valutazione dello zafferano rispetto ad altri prodotti agrari. Fino a cinque miglia dalla città, cioè per la stima più alta, il grano veniva valutato soldi 17 lo staio. Per l’olio viene fissato un valore di 5 soldi l’orcio, per i fichi secchi uno di 20 soldi lo staio. Il valore del vino oscillò, a seconda delle zone e del tipo di produzione tra 40 e 12 soldi al barile. Un paio di capponi venne valutato venti soldi. Una sola oncia di zafferano, pari a poco più di 28 grammi, venne valutata 12 soldi(11).

Numerosi richiami storici che attestano la presenza produttiva, la commercializzazione e l’alto riconoscimento dello Zafferano delle Colline Fiorentine che veniva denominato e apprezzato a livello internazionale come “Zima di Firenze”. Lo stesso veniva utilizzato anche come valore di scambio di merci ed utilizzato come spezia per la preparazione di piatti e pietanze prelibate. Nel Medioevo a Firenze affluivano commercianti di tutta Europa per acquistare lo zafferano del contado fiorentino ed ai tempi del Da Uzzano (1440) lo zafferano transitante per Firenze era soggetto ad un dazio di transito di otto fiorini per soma, per differenziarlo dallo zafferano prodotto in loco. E’ noto da precisi riferimenti storici che Firenze era un centro di produzione dello Zafferano e che da alcuni brani frammentari di Baumgartner sembra che i suoi dintorni ne fossero le migliori zone di produzione “E si trage (zafferano)… dil contado di Firenze: e questo è quasi il miglior di tutto l’altro zafferano”.

Può essere interessante conoscere cosa scriveva il Pegolotti relativamente alla qualità dello zafferano ed alla sua conservazione, anche perché questo potrebbe servire per la produzione e la commercializzazione odierne.

“Ma d’onde che sia”, cioè indipendentemente dal luogo di provenienza, lo zafferano “vuol essere rosso colorito e secco e asciutto, che non tenga troppo femminella gialla né altro male tenere, e che quando lo strigni colla mano e poi aprendo la mano che non ti rimanga appallozzolato ma rigonfi come cosa asciutta, e che non tenga sabbione, e di ciò ti puoi avedere: arrecalo in sun uno tagliere e colla mano leggiermente lo scuoti sopra lo detto tagliere e leva il zafferano, e se terrà sabbione, cioè rena, o altro tenere grave, rimarrà in sul tagliere sicché il potrai vedere. Ora quanto è secondo sua ragione e sua contrada più colorito e con meno femminelle gialle e col suo piede più rosso e meno giallo e più secco et più asciutto e più netto, tanto vale meglio. E vuolsi guardare in sacca di cuoia e non di canovaccio, però che si salva meglio in sua bontade in sacco di cuoio che in sacco di canovaccio, e vuolsi vedere e guardare in luogo né troppo umido né troppo asciutto, chi bene lo vuole salvare; e durerà in sua bontade 10 anni”(12).

Dello zafferano (crocus sativus) discusse abbastanza ampiamente Cosimo Ridolfi, in una delle sue lezioni di agraria, edite nel 1858, quando ormai l’antica coltivazione si era assai ridotta. E ne discusse fra le “piante industriali da tinta, da filo e da treccia”, tuttavia fornendo utili indicazioni anche per quelli che sono i nostri scopi.

Lo zafferano “è una pianta bulbosa, i di cui fiori offrono proprii pistilli coloriti di giallo, e questa materia tintoria è l’oggetto per cui sono ricercati nell’industria. La raccolta di questi pistilli si fa generalmente dalle donne, e di mano in mano che si aprono i fiori, esige molte braccia e somma diligenza. Ma il colore che lo zafferano somministra non è solido, e per conseguenza l’arte della tintura lo adopera il meno possibile. Comunemente i pistilli dello zafferano sono destinati piuttosto al consumo delle farmacie per certe medicine che sono adesso in disuso, e a quello dei fabbricatori di paste da minestra e di formaggi che lo adoprano per colorire in giallo i loro prodotti, e per dar loro un gusto piacevole a certi palati, che sono assuefatti a codesto nutrimento, giacché l’odore forte proprio di codesta sostanza tingente non si accomoda a tutti i gusti. La cultura dello zafferano si fa per mezzo della piantagione delle sfigliolature o moltiplicazioni delle sue cipolle o bulbi, i quali però hanno dei grandi nemici in una crittogama molto simile a quella che distrugge la medica detta rhizzoctonia crocorum, e nei topi che ne sono ghiottissimi. Da per tutto la cultura dello zafferano è ristretta a circoscritte località, e poche terre sembrano veramente capaci di favorirla. In Toscana è stata coltivata in altri tempi, ma qui pure ristrettamente, ed in oggi nulla raccomanderebbe una di lei più estesa cultura”(13) .Dagli anni ’50 in poi diversi agricoltori della provincia di Firenze, in grande solitudine e senza clamori di sorta, hanno ripreso in modo autonomo la coltivazione di questa storica e importante spezia. Un lavoro certosino tale coltivo che in parte veniva accostato in alcune aree all’arte della coltivazione e della moltiplicazione del Giaggiolo. Alcuni agricoltori , in particolare coloro che adoperavano gli orti come “giacimento alimentare” della propria famiglia abbinavano la coltivazione di ortaggi tipici e tradizionali della toscana alla modesta coltivazione dello Zafferano, utilizzato per implementare e arricchire di gusto e sapore alcune caratteristiche pietanze fiorentine o da abbinare agli stessi ortaggi. Nell’ultimo decennio il confronto e l’accrescimento dei coltivi si ampliava e gli agricoltori hanno ravvisato la necessità di una tutela e di una valorizzazione provinciale dello “Zafferano delle Colline Fiorentine”.

 

1.“E pensa al zafferan piantare in loco/ Che ‘l terren sia leggiere, e dissodando/ Me’ pruova, e ch’acqua vi si fermi poco” (M. TANAGLIA, De agricultura, a cura di A. RONCAGLIA, Bologna 1953, I, 1282-1284 (p. 45).
2.Ivi, III, 139-147 (p. 103).
3.Statuti della Lega di San Donato in Poggio (1406), a cura di O. MUZZI, Associazione Culturale San Donato in Poggio, s.a., p. 116, rubr. 47.
4.Statuti di San Godenzo, a cura di F. ZERBOLI ZOLI, Comune di San Godenzo 1985, p. 136.
5.CH. M. DE LA RONCIERE, Florence centre économique regional au XIVe siècle, voll. 5, Aix-en-Provence ...., III, p. 785.
6.Il contratto di mezzadria nella Toscana medievale, II, Contado di Firenze, secolo XIII, a cura di O. MUZZI e M. D. NENCI, Firenze 1968, n. 48, pp. 163-164; n. 52, pp. 166-167; n. 57, pp. 171-173; n. 68, p. 182; n. 141, pp. 247-248.
7.F. BALDUCCI PEGOLOTTI, La pratica della mercatura, edited by A. EVANS, Cambridge, Massachusetts, 1936, p. 67.
8.Ivi, p. 207.
9.Ivi, p. 297.
10.Ivi, p. 376.
11.E. CONTI, I catasti agrari della Repubblica fiorentina e il catasto particellare toscano (Secoli XIV-XIX), Roma 1966, pp. 44, 46-47.
12.F. BALDUCCI PEGOLOTTI, La pratica, cit., p. 376.
13.C. RIDOLFI, Lezioni orali di agraria date in Empoli, voll. 2, Firenze 1858 (rist. anastatica a cura della Cassa di Risparmio di Firenze, 1993, con premseea di P. FIORELLI), II, p. 195.